Se il Partito Democratico fosse
una società per azioni, osserveremmo i suoi azionisti pendere da una trave come
i salumi del reparto gastronomia; sulla scrivania nessun messaggio d’addio,
soltanto il bilancio 2011 dell’associazione guidata da Bersani. E’ stata forse
registrata una perdita clamorosa? No, anzi, il conto economico chiude in utile
di 5 mln rispetto alla perdita di 43 mln del 2010. La causa è invece da
ricercare nello stato patrimoniale, dove l’attivo è passato da 184 mln ad
appena 33 mln, un crollo di più dell’80%; specularmente il patrimonio netto è
sceso da 125 a 25 mln e i debiti da 61 a 6 mln. Dove diavolo sono finiti
quattro quinti di partito? Sarà mica che Berlusconi – top player sul mercato
dei parlamentari – ha comprato Bersani, Fassina, Renzi e D’Alema? Oppure è
stata qualche casa farmaceutica a fare un takeover sui rottama tori, per poi
testarli sui linfonodi di qualche roditore? No no, niente di tutto ciò!
Semplicemente sono spariti tutti i crediti che il PD vantava nei confronti
dello Stato per i contributi elettorali.
PD: Poveri Dentro! potrebbe titolare un quotidiano come Libero. Le cose
ovviamente non stanno così e il partito, nonostante questa incredibile
liposuzione, non è sul lastrico. Semplicemente il tesoriere, Antonio Misiani,
ha deciso di cambiare le regole di contabilizzazione dei contributi. Ha fatto
bene? Ha fatto male? Vediamo un po’ cos’è successo.
Sappiamo tutti che i rimborsi per
le spese elettorali non sono calcolati sulla base di quanto effettivamente
speso ma sui voti ottenuti, per cui nelle casse delle formazioni politiche
entra sempre più denaro di quanto ne esca effettivamente. Per questo motivo sembra
che quello fornito dallo Stato sia un vero e proprio finanziamento (che il
referendum del 93 aveva abrogato). Ad ogni modo, secondo la vecchia legge
157/1999, i pagamenti per i rimborsi elettorali – che il Parlamento versa a
rate annuali – dovevano interrompersi qualora la legislatura
fosse finita in anticipo. Questa norma, che puntava a contenere i trasferimenti
ai partiti, era assurda da un punto di vista concettuale: trattandosi di rimborsi,
non si capisce infatti il perché dell’interruzione visto che il partito ha già
subito tutte le uscite per la campagna elettorale. L’apparente nonsense può
essere compreso solo se – di nuovo – si
considera il contributo come un finanziamento all’attività operativa; in questo
caso il blocco dei pagamenti ha ragione d’esistere nel momento in cui cessa tale
attività, ovvero la presenza delle liste in Parlamento.
Poi, nel 2006, la svolta. Con la
legge n.56 è stato deciso che i pagamenti dovevano continuare anche a legislazione
finita in anticipo. Questo è stato fondamentale per il PD che, non esistendo
fino al 2008 , è potuto crescere soprattutto grazie ai soldi che La Margherita
e i DS incassavano per la quindicesima legislatura (2006-2008). Nei bilanci
queste entrate (essendo riferite alla copertura delle spese per la campagna
elettorale) venivano correttamente considerate di competenza del primo anno
della legislatura e in contropartita si generava un credito (free-risk) nei
confronti dello Stato. A furia di elezioni politiche, regionali ed europee lo
stato patrimoniale del PD si è, naturalmente e giustificatamente, gonfiato a
dismisura.
Nell’estate del 2011 è però stata
ripristinata la condizione imposta dalla 157/1999, e il tesoriere del PD si è
trovato davanti a un bivio. Da una parte mantenere il principio di competenza,
e tuttavia accettare che i crediti soffrano il rischio “scioglimento Camere”;
siccome ad ogni previsione di perdita nell’attivo si associa un fondo di
copertura, si pone quindi il problema di come valutare tale rischio. Chi decide
quanto sia instabile una legislatura, il partito stesso? No, non è oggettivo.
Un esperto (come gli avvocati che giudicano le possibilità di sconfitta in un
processo)? Non esiste. Dall’altra parte, come scelto dal PD e da altri partiti,
si può cancellare tutti i crediti e passare al primitivo principio di cassa
(segnare nei ricavi solo la rata incassata), con conseguente sgonfiamento del
bilancio e perdita di informazioni per il lettore.
Io non ho alcuna facoltà di indicare
la scelta migliore, ma certi punti fondamentali appaiono ovvi. Nessuno legge il
bilancio dei partiti per farci degli investimenti, né tantomeno per trarre
conclusioni politiche e decidere chi votare (sarebbe comico se si votasse a
seconda della performance reddituale o della solidità finanziaria). Ciò però
non significa che questi documenti siano inutili, e che possano quindi essere redatti
scegliendo a piacere tra una lista di principi contabili lunga come il
campionario Pantone. E’ anzi la totale assenza di regole e, in generale, una
normativa ricca di ridondanze e lacune che trasforma erroneamente il bilancio
un manifesto politico e che permette di dire, parafrasando i dittonghi
primordiali di un noto dirigente politico, “che i partiti possono buttare i
soldi dello Stato fuori dalla finestra”.
Dan Marinos
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