La signora Stradallo disse che i fiori li avrebbe comprati lei. A me andava più che bene, anzi non m’interessava affatto chi avrebbe comprato gli stramaledetti fiori per la sposa, mia nipote, per cui che ci pensassero pure i parenti del suo futuro marito; in quanto a me, avevo già abbastanza da fare per trovare la cravatta che piacesse sia a me che alla nonna della sposa, mia moglie. Dall’armadio volavano serpenti di stoffa multicolore e la fine non sembrava arrivare mai (per quanto fossimo già in ritardo, ma in fondo il pretaccio poteva pure aspettare). Ad un tratto lei me ne porse una che non ricordavo di possedere. Eppure mi era famigliare. Mi avvicinai con discrezione e la presi in mano; fu solo quando la toccai che mi tornò in mente tutto.
Vidi due mani che afferravano un Cucciolone Algida dalla macchinetta al
piano terra del Velodromo, che al primo anno c’era perfino il bar e le code
infinite di persone che volevano un panino con la cotoletta, e poi mi spostai
più in là, prima nei bagni che puzzavano ancora di vomito il mattino dopo il
Galà di Natale e lo sciacquone o lo prendevi a calci o ti incidevi la vite sul
palmo della mano in stile Padre Pio. Poi vidi gli ascensori che quando arrivavano
facevano un suono di gattino stritolato, con la targhetta che indicava il piano
incassata nel muro per i geni che pensavano fosse il pulsante per chiamare
l’ascensore (gli stessi che poi lo usavano per fare solo un piano: ma cazzo
prendi le scale, che l’unica cosa strana che hanno è che non prende il
cellulare!). Vidi l’N22, il numero della mia prima ed ultima aula nonché il
numero dell’autobus londinese che di notte mi portava a casa dopo aver lavorato
in un ristorante con piatti a base di pollo. Vidi le sedie rosso scuro dei box
studio, che non potevi rubare ma solo dondolarci e poi ancora un ombrello
distrutto a spicchi arcobaleno. La vista ripercorse l’ingresso e riprovai l’escursione
termica alle porte del Velodromo, mente Eric Clapton vendeva panini con la
compagna di colore in un furgoncino parcheggiato accanto al cancello sul retro
di Sarfatti, dove potevi entrare solo bloccando la fotocellula al passare delle
auto. L’ingresso tra i leoni, ovviamente, e qualche vignetta che non capivo. Un
altro ingresso ancora, cioè il passaggio sotterraneo chiuso dopo la bomba, dove
sentivi lo stesso odore delle cucine delle scuole elementari grazie al
pavimento in gomma nera che portava alla mensa “dei poveri”, che al primo anno
potevi trovare stinco di maiale e couscous, nonché tavoli con sedie (pure
quelle non si potevano rubare) su cui era impossibile sedervi senza contorsioni
fenomenali, sulle quali stazionavano un paio di vecchi pazzi mentre un inserviente
urlava: “Permesso!”. Il sistema in stile DOS dei vecchi punti blu, e i
cellulari (e i primi Iphone e Blackberry) che, nelle settimane successive agli
esami, emergevano contemporaneamente dalle tasche degli studenti come gli
gnocchi nell’acqua bollente, e ancora le venti fotocopie giornaliere a
disposizione nell’aula computer, che vietava MSN ma soccombette a Facebook.
Vidi gli uffici nascosti dell’università, che per raggiungerli bisognava
entrare nel Welcome Desk a sinistra dei leoni, passare attraverso una posta
quasi mimetizzata nel muro dietro la scrivania e prendere infine un ascensore
supersonico. La folla della giornata di presentazione delle aziende, dove
capivi di essere troppo giovane, o troppo impegnato in altro, o troppo vecchio,
o già occupato, e allora alzavi le spalle e ricominciava la corsa ai gadget; e
soprattutto tutte le persone che avevano già fatto, se non uno stage, un
colloquio in più di te (e in triennale, in fondo, bastava averne fatto uno
solo) e la sensazione di tutti quei dubbi su cosa avresti dovuto fare e invece
no. Le code all’Egea e al CUSL (ommioddio, possedevo una tessera del CUSL!) e
tutti i disegni sui libri e le metodologie di studio che cambiavano ogni anno:
appunti più sottolineatura a matita, appunti più sottolineatura in rosso, solo
sottolineatura, solo appunti, appunti più eserciziario originale, eserciziario
fotocopiato più libro, dispensa più appunti più esercizi di quello di classe 11
che ha l’esercitatrice migliore (e bbona), appunti e slides, appunti su slides,
solo slides, appunti su papers, slides e papers, papavers e papers…
Quando mia moglie mi urlò qualcosa, sentii fuggire tutto come quando
correvo per prendere in tempo il pullman, percorrendo tutto Viale Bligny,
passando accanto al Volo, al Blockbuster e a un negozio gigantesco che vendeva
stampe di quadri. Per un attimo mi parve di vedere un vecchio, magro, con gli
occhiali da sole e i pantaloni tirati su fino alle ascelle che fissava,
immobile e in posizione da small soldier la gente che passava fuori dal suo
portone, accanto al Darty di Porta Romana.
Dan Marinos
you are the best ... a parte "con la targhetta che indicava il piano incassata nel muro per i geni che pensavano fosse il pulsante per chiamare l’ascensore" ... pprrrrrrrrrr ... ah ah ah.
RispondiEliminaale
Mi è venuto in mente perché ho visto persone cascarci pure il giorno della mia laurea!
RispondiEliminaIl negozio di quadri lo avevo gia rimosso, bell'articolo!
RispondiEliminaMattia
Forse le scale non le prendeva nessuno per evitare le figure meschine che, talvolta, ti capitava di fare (parlando di poesia) Ricordi?
RispondiEliminaSte
Ma..ma...ma... non mi ricordo!
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