Repubblica.it, 24 gennaio 2012 |
Scrivo in uno stato di tensione insostenibile, ma non mi rimane altro che alimentare il mio tormento: riguarderò quella finestra di quel pensionato, nella squallida strada milanese, e scatterò un’altra foto. Tuttavia, io non sono un debole. Non sono un degenerato. Quando avrete finito di leggere quello che, tra i brividi della febbre, sto scrivendo, forse riuscirete a comprendere le mie ragioni.
Tutto cominciò mentre camminavo per le strade di Milano e riflettevo sulla mia carriera di giovane giornalista di Repubblica. Avevo bisogno del classico scoop sensazionale con cui farmi notare in redazione. Percorrevo assorto e senza direzione le vie già buie nel tardo pomeriggio invernale, senza badare né alla gente che mi camminava attorno né ai luoghi che stavo attraversando. Una giornata che si poteva chiudere in maniera banale (e solo ora capisco che la salvezza sta nella routine) se non fosse stato per un qualcosa, una sensazione, che mi fece alzare lo sguardo rivolgendomi alla parete di un grande edificio. Sembrava un incrocio tra un condominio e un palazzo pieno d’uffici: molte erano le finestre illuminate, ma solo una aveva le tapparelle sufficientemente alzate da permettere di vedere chiaramente l’interno della stanza, o per lo meno il muro laterale sinistro. Mi parve di vedere una figura muoversi al di là dei vetri: soltanto un profilo, apparso e scomparso nella stessa frazione di un battito di ciglio, ma che mi pareva di conoscere benissimo. Quando si allontanò, potei vedere appesa alla parete una bandiera italiana inquietantemente e terribilmente diversa dalle solite bandiere: aveva una grande aquila al centro, che teneva tra le zampe il fascio littorio. Era una bandiera fascista. Fermai un passante e chiesi: “Scusi, che edificio è quello?”. Lui mi rispose che era il pensionato degli studenti della Bocconi.
La Bocconi, l’università dei figli della borghesia, della autoproclamata classe dirigente del futuro. Era stato un anno in cui l’ateneo privato era salito sulle pagine dei giornali numerose volte, inizialmente perché uno studente omofobo aveva insultato alcuni membri del gruppo universitario vicino ai diritti degli omosessuali e imbrattando le locandine dell’associazione con scritte filonaziste. Poi l’elezione del Presidente della Bocconi a Primo Ministro italiano. Infine le manifestazioni dei collettivi degli istituti statali che tentarono o per lo meno dichiararono di voler assediare la Bocconi. Quella finestra e quella bandiera appesa erano lo scoop che cercavo. Purtroppo non avevo con me la macchina fotografica, e dovetti ritornare a casa. Il giorno dopo, alla stessa ora, ero di nuovo sotto il pensionato studentesco: le tapparelle erano ancora alzate, e la stanza illuminata. Puntai l’obbiettivo, guardai nel mirino e... vidi qualcosa di assurdo. Alla finestra, con il braccio destro alzato, c’era un uomo. In un primo momento speravo fosse lo studente; un secondo dopo invece riconobbi Benito Mussolini. Istintivamente scattai la fotografia e subito dopo provai a guardare direttamente con i miei occhi, ma potei solo vedere la sagoma allontanarsi dalla finestra. Ora, attraverso i vetri, appariva soltanto la bandiera. Controllai l’immagine che avevo scattato ed eccolo lì, Mussolini, che si sporgeva e salutava una folla inesistente. Rabbrividii di sconcerto; paralizzato e curioso, rimasi due ore sotto il pensionato, con la stanza che rimaneva illuminata, la bandiera e l’aquila fredde e immobili come un affresco. Non si affacciò nessuno. Tornai a casa e pensai a quella foto per tutta la sera: la guardavo e la riguardavo, e non capivo. Forse era uno scherzo, forse era solo una sagoma di cartone; forse colto di sorpresa credevo di averlo visto muovere e salutare. Valeva la pena ritornare il giorno dopo, alla stessa ora.
Ritornai l’indomani. Inquadrai di nuovo la finestra e vidi una testa sorridermi. La persona doveva essere piuttosto bassa, perché il volto arrivava a fatica al davanzale. Scattai e guardai lo schermo LCD: era la faccia di Silvio Berlusconi. Puntai di nuovo l’obbiettivo, ma non c’era più nessuno: solo la bandiera fascista. La testa mi stava per esplodere: volevo raccontare tutto in redazione, eppure avevo paura di non essere creduto. L’unica cosa da fare era tornare ancora una volta. Se possibile, la terza fotografia che scattai fu ancora più sconcertante di quelle precedenti: questa volta dalla finestra si agitava un pupazzo verde. Era Kermit la rana. Cazzo, non ci capivo più niente. Oramai era diventata un’ossessione. Ogni giorno tornavo e vedevo un personaggio nuovo e assurdo. Molti di loro non potevano nemmeno esistere, perché erano già morti. Ero distrutto psicologicamente e anche il corpo rimaneva trascurato; il mio aspetto era trasandato, tanto da sembrare uno di quei personaggi di Lovecraft. Scattai decine di foto, mentre in redazione mi facevo vedere poco. Un giorno il mio capo redattore mi convocò esigendo un articolo; avevo la fotocamera con me e trovai il coraggio di mostrargli le fotografie. Gli anticipai che riguardavano il pensionato della Bocconi, e quando vide la prima, rimase sorpreso: “Una bandiera fascista in Bocconi?! Pazzesco!”. Poi fece una carrellata delle altre foto e la sua espressione tornò neutrale: “Come mai così tante foto uguali?”. Chiesi di restituirmi la fotocamera e guardai le immagini con tutti quei personaggi impossibili: “Come uguali? Non vede chi si affaccia dalla finestra?”. Lui risposte di no. Balbettando, gli descrissi cosa vedevo io. Mi guardò come uno che si sente preso per il culo e chiamò un collega che stava passando di lì. Anche lui vedeva soltanto la finestra e la bandiera. Sbiancai. Il caporedattore mi disse di scrivere alla svelta l’articolo, dato che la foto era davvero eccezionale: “Aggiungi anche che in Bocconi sono già capitati episodi di stampo neonazista e omofobo. Mi raccomando però, non scrivere che il colpevole di quei fatti è già stato punito severamente, se no che articolo-scandalo è? Dai, che siamo pure a ridosso della giornata della memoria.” mi disse facendomi l’occhiolino. Io comunque continuavo a non capire. Ero diventato pazzo?
Uscii per strada e mi avviai verso il pensionato, verso la finestra, verso la bandiera fascista. Per strada fermai qualche passante per mostrargli le fotografie: tutti vedevano soltanto l’aquila e il tricolore. Corsi a perdifiato ed arrivai sotto quel luogo di follia. Inquadrai e quasi svenni: appoggiato coi gomiti al davanzale c’era Ezio Mauro, il direttore di Repubblica. A quel punto decisi di risolverla una volta per tutte: feci un rapido conto del piano dell’edificio e della posizione della camera ed entrai nel pensionato. Quando arrivai in corrispondenza dell’ala dove si doveva trovare la stanza, raggiunsi il punto di non ritorno: non c’era nulla, era soltanto un corridoio senza porte. Mi arresi alla follia. Scrissi l’articolo esattamente come il giornale si aspettava. Venne pubblicato su internet sia nell’edizione milanese che in quella nazionale; probabilmente anche su quella cartacea. La foto della finestra era lì, accanto alle quattro righe che riuscii a battere al computer.
Conservo tutte le fotografie in una cartella. Ogni giorno ne compare una con un personaggio nuovo. Ogni giorno mi reco sotto la finestra, per vedere cose che nessun’altro vede. Ogni giorno mi ripeto che forse sono diventato pazzo; ma un ultimo disperato tentativo lo voglio fare. Allego a questa lettera qualche mio scatto, sperando che nel mondo ci sia qualcuno altrettanto pazzo da vedere cose che non esistono.
Of course, questo che avete appena letto è un racconto di fantasia. Non è una confessione del giornalista che ha scritto il pezzo in questione, né una mail riservata né un manoscritto trovato in cantina da Manzoni. Tra l'altro Repubblica in questi giorni si è davvero scatenata in quanto ad articoli idioti (vedi qua un altro caso altrettanto imbarazzante). Libero e il Giornale hanno una nuova, temibile concorrente.
Dan Marinos