sabato 5 marzo 2011

Romanzi Cartolarizzati (parte prima)



Allora, il Corriere ha pubblicato i Classici del pensiero libero. Il Giornale ci si può accaparrare il Testamento politico di Mussolini. Millemila altri quotidiani e riviste han fatto promozioni simili. Come sempre noi dell'Economostro cavalchiamo l'onda del successo per cui non possiamo esimerci dal partecipare alla pratica dell'allegato intellettuale, ovviamente rendendolo ancora più attraente. Parte quindi la mini serie di due puntate Romanzi Cartolarizzati.
L'offerta è questa: abbiamo selezionato per Voi i migliori romanzi di tutti i tempi, li abbiamo un pò stralciati e taroccati, ed infine li abbiamo uniti in un unico portfolio, il quale diventa così entità a sé stante e commerciabile in tutti i mercati. Qui di seguito potete godere della prima parte del portfolio: se credete di riconoscere le novels sottostanti, buon per Voi...perchè per noi oramai sono fuori controllo.

Un tempo i Badwill erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza, Colorado; ce n’erano persino ad Denver, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di mare, proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev’essere. Adesso a Trezza non rimanevano che i Badwill di padron Tony, quelli della casa del nespolo, e della Provvidenza ch’era ammarata sul greto, sotto il lavatoio, accanto alla Concetta dello zio Cola e alla paranza di padron Fortunato. Povero padron Tony. La casa non era pagata. Era la sua nemica, quella casa. Ogni volta che egli faceva scricchiolare il pavimento della veranda, la casa diceva, sfacciata: non sono tua, Anthony Badwill, e non lo sarò mai. Il banchiere a cui apparteneva la casa era uno dei suoi peggiori nemici. Helmer il banchiere. La feccia dell’umanità. Più di una volta aveva dovuto presentarsi a Helmer per dirgli che non aveva abbastanza soldi per sfamare la sua famiglia. Helmer, i capelli grigi ordinatamente scriminati e le mani morbide, gli occhi da banchiere che parevano ostriche ogni volta che Anthony Badwill diceva di non aver soldi per pagare le rate della casa. Impossibile parlare a un uomo della sua razza. Odiava Helmer. Gli sarebbe piaciuto spezzargli l’osso del collo, strappargli il cuore dal petto e poi calpestarglielo. Ogni volta che pensava a Helmer borbottava: arriverà il giorno! Arriverà il giorno! Non era sua la casa, e gli bastava toccare la maniglia della porta per ricordarsi che non gli apparteneva.

Suo padre aveva osservato che, costantemente, in certe stagioni il solfato di rame saliva e in altre calava di prezzo. Decise perciò di comperarne per speculazione nel momento più favorevole, in Inghilterra, una sessantina di tonnellate. Poi il padre telegrafò al figlio che il buon momento gli sembrava giunto e disse anche il prezzo al quale sarebbe stato disposto di concludere l’affare. Mi ricordo la tranquillità e la sicurezza con cui Tony s’accinse all’affare che infatti si presentava facilissimo perché in Inghilterra si poteva fissare la merce per consegna al nostro porto donde veniva ceduta, senz’esserne rimossa, al nostro compratore. Egli fissò esattamente l’importo che voleva guadagnare e col mio aiuto stabilì quale limite dovesse stabilire al nostro amico inglese per l’acquisto. Tony dunque, per menare avanti la barca, aveva combinato con lo zio Crocifisso Woodenbell un negozio di solfato da comprare a credenza per rivenderli in Europa, dove compare Cinghialenta aveva detto che c’era un bastimento di Trieste a pigliar carico. La Longa, nuora di Tony, seppe del negozio di solfato e rimase a bocca aperta, e padron Tony dovette spiegarle che se il negozio andava bene c’era del pane per l’inverno, la plastica al seno per la neo sedicenne Mena e il Mercedes per Tony Junior. Tuttavia da Londra capitò un breve dispaccio: Notato  eppoi l’indicazione del prezzo di quel giorno del solfato, più elevato di molto di quello concessoci dal nostro compratore. Addio affare.

Tony era depresso per questo fallimento, che poteva costargli caro. Passava tutto il giorno a dormire e oziare sull’ottomana nella sua stanza. Lo svegliò definitivamente qualcuno che bussava con forza alla porta. «Ma apri, dunque! Sei vivo o morto?... Non fa che ronfare!» gridava Nastàsja, la sua cameriera, picchiando col pugno sulla porta. «Sono giorni e giorni che ronfa come un maledetto cane; e lo sei, un maledetto cane! Su, apri! Sono quasi le undici.» Balzò su dal divano, poi si sedette. Il cuore gli batteva da fargli male. Si sollevò, si chinò in avanti e tolse il gancio.  L'intera stanza era talmente piccola che si poteva togliere il gancio senza alzarsi dal letto. Nastàsja lo guardò in un modo strano: in silenzio, gli tese un foglietto grigio, piegato in due e sigillato con la ceralacca.
«Un avviso dall'ufficio,» disse consegnandogli la carta.
«Da quale ufficio?»
«Come, quale ufficio? Significa che vi vogliono alla polizia; che scoperta!»
«Alla polizia!... E perché?»
«E io che ne so? Se ti vogliono, vacci.» La fissò attentamente, si guardò attorno e alla fine si volse per andarsene. «Ma che roba è questa? Per quel che ne so, io non ho niente da fare con la polizia! E perché proprio oggi?» pensava, immerso in un'angosciosa perplessità. «Santo Dio, purché tutto finisca presto!» Stava per gettarsi in ginocchio a pregare, ma poi scoppiò a ridere: non della preghiera, ma di se stesso.

Dan Marinos

2 commenti:

  1. Grande il Dosto e viva il Marinos!

    RispondiElimina
  2. noi dell'economostro...PLURALE MAIESTATIS????? we ciccio(come direbbe la Maionchi) vola basso!!!!! alla fine ognuno ritorna alle sue passioni eh?

    Azzu scimmia

    RispondiElimina