L'altro giorno un amico mi ha mostrato l'elenco dei 100 album rock fondamentali degli anni zero (2001-2010) contenuto nella rivista Il Mucchio: "Pff! Sarà la solita vaccata alla Rolling Stones" penso io, memore di quel numero di Febbraio 2009 in cui Frank Sinatra era stato escluso dalla classifica dei cantanti di tutti i tempi (classifica per altro commissionata ad Ernst&Young in un evidente momento di sindrome della stessa di overdose da revisione fiscale). Invece Il Mucchio (che costa un eye of the head ma che se li merita tutti data la totale assenza di pubblicità in 300 pagine di ottima fattura), mi ha regalato la sorpresa e l'angoscia di essere riuscito a riconoscere solo 29 artisti su 100 (meno di uno su tre), molti dei quali per altro posso dire di conoscere vagamente come conosco i risultati trimestrali dei piani quinquennali sovietici.
Joanna Newsom. I Neurosis. Fiery Furnaces e Micha P. Hinson. Burial, Current 93 ed Harry Markowitz & the Diversified. Gli Animal Collective. Solo uno di questi non esiste (anche se sarebbe bello se esistesse). Ecco la bellezza della musica anglosassone: la presenza di numerosi gruppi validi sia del presente che del passato. Ci sono tra l'altro somiglianze con i paper accademici: come Modigliani e Miller han detto praticamente tutto sulla finanza d'azienda e la maggior parte degli studi successivi sono solo rielaborazioni e verifiche della loro tesi, così molti dei gruppi contemporanei ribadiscono una musica già spiegata dai Beatles e dai Pink Floyd.
Altri legami musica-economia? Mah...per esempio la composizione di piccole-medie-grandi band. In Italia negli anni '70 non esisteva la media impresa: c'erano molti piccoli imprenditori e diversi grandi gruppi industriali. Oggi musicalmente non siamo particolarmente distanti da questo schema, perchè quelli che apparentemente sono artisti "medi" in realtà diventano minuscoli di fronte ai numeri dei monopolisti del mercato musicale italiano: Vasco, Ligabue e la Pausini, che di fatto sono gli unici in grado di riempire gli stadi. Tutti gli altri non ne hanno la capacità (o meglio, la possibilità), a meno di mettersi assieme per un evento particolare tipo festival. Lo Sherman's Act è del 1890 ed è il baluardo contro i monopoli: vi prego, importiamolo anche per la musica italiana. Prendiamo i vascolizzati e le menopausine e scuotiamoli fino allo sfinimento, facendogli ascoltare buona musica, quella che difficilmente passa in Radio (salvo alcune piccole emittenti e la sempre stupefacente Radio 2) e quella che non passerà mai in televisione, ma che trova una buonissima rappresentazione su soluzionisemplici.net. E guai a chi dice: "Si, ma i primi album del Liga e di Vasco sono fantastici".
Ora, le cause per cui gli Uk-Usa hanno una trazione molto più efficiente nel portare piccoli gruppi ad un successo inter/nazionale totale mentre in Italia gli Afterhours sono pressochè sconosciuti (e nemmeno io posso considerarmi del resto un' enciclopedia riguardo a questa band nata nel 1986 da un'idea di Manuel Agnelli, con 10 album pubblicati di cui 8 studio, 1 live e 1 raccolta)...dicevamo, le cause possono essere molte, ma ne vanno sottolineate due su cui indagare. La prima più che una causa è il sospetto che gli italiani non capiscano un cazzo di musica mentre gli inglesi sì. Direi che tale ipotesi sia più che infondata: difatti non si spiegherebbero i successi alla Bieber e alla X-Factor, che in Inghilterra pesano molto di più che da noi (grazie a Dio almeno in questo senso il monopolio dei 3 punisce sia i bravi che gli scarsi concorrenti).
La seconda causa è semplicemente la differenza di mole di denaro che circola nell'industry musicale italiana e inglese/americana. Giusto per rimanere in campo economico e regalare una super chicca, suggerisco di andare a dare un'occhiata al sito della Pullman Group, una investment bank che creò diverse obbligazioni basate sul business delle royalties di diversi musicisti, in particolare: David Bowie, James Brown, Marvin Gaye e una raccolta di grandi voci della Motown. Mica bruscolini, le transazioni del 2004 titillavano più di 1 billion dollarz. Il processo di cartolarizzazione degli artisti procedeva in questo modo: venivano selezionati diversi album (per esempio la discografia del Duca Bianco) e i soldi che questi producevano per via dei diritti d'autore diventavano una sorta di cedole per un prestito obbligazionario emesso sul mercato e ricevuti dal cantante stesso (i Bowie Bonds stuzzicarono 55 milioni di dollari).
Non ho idea di come sia stata poi l'esperienza effettiva di questi titoli (i BB hanno raggiunto la loro scadenza, con un rating prossimo alla spazzatura per via della crisi del settore) ma visto che il sito è fermo e orrendamende impostato su un html giurassico qualche sospetto ce l'ho. Rimane comunque la prova che gli americani e gli inglesi di soldi per la musica ne hanno e, se li spendono facilmente per godere dei diritti di Rebel, Rebel è chiaro che non hanno difficoltà a promuovere tutti i meritevoli di turno. Quale soluzione per l'Italia? Come detto bisognerebbe introdurre un po' di antitrust, e poi bisogna attrarre capitali (ma non mi dire...). Certo è rischioso investire tutto su singoli gruppi (la pensione non me la gioco per un investimento sbagliato sugli Offlaga Disco Pax), e per questo ho bisogno di un pescecane da fondo di investimento che raggruppi una compilation italiana e risolva il problema dell' (I can't get no) diversification, come cantavano gli Willy Sharpe & the Beta Unlevered Band.
Dan Marinos
In Italia oltre ad ascoltare Vasco Rossi vi piace anche il Cinepanettone.
RispondiEliminaE da quanto risulta dopo lo scandalo Milanese, nel Cinepanettone ci vogliamo i candi-dati
RispondiEliminahttp://www.ilfattoquotidiano.it/2011/07/09/sogni-a-misuradi-%E2%80%9Ccinepanettone%E2%80%9D-sara-pure/144171/