Una cosa che mi avrebbe gasato moltissimo, ai tempi della laurea triennale,
era poter fare il discorso di chiusura di sessione: peccato che per essere
selezionati bisognava aver ottenuto il voto e la media più alti tra i presenti
in aula (genitori e parenti compresi?), ed io non possedevo né l’una né
l’altra. Per la magistrale questa usanza non era prevista, e comunque nemmeno
stavolta potevo sperarci. Da questo lunedì si concluderà l’anno accademico 2011-2012 con le ultime
sessioni di laurea, a cui parteciperanno persone che ho conosciuto, che ho
soltanto incrociato o che disgraziatamente leggono questo blog. A questo punto,
visto che non posso aspettare che mi invitino a Stanford a pronunciare “state
affamati, state pazzi, statte accuorti”, dedico queste righe a voi, futuri
dottori.
Questo è il vostro ultimo weekend da pischelli irresponsabili, e molti di
voi saranno chiusi in casa a domandarsi come impostare la discussione: quante
slide fare? cosa scrivere? come far entrare tutta la tesi in un monologo da
pochi minuti? Citando un’amica: “168 pagine in 10 minuti. Poi mando il mio CV
alla Edizioni Bignami.”. Non disperate e pensate che anche i più grandi sono
caduti in questa trappola. Mentana, per esempio, prima di ogni servizio lungo appena 180
secondi fa una premessa di mezz’ora in cui anticipa, descrive e trae le dovute
conclusioni sull’argomento: poi vi chiedete perché Cairo ha comprato La7 per
pochi spicci...
Se avete scritto una tesi con vostri modelli di regressione o sondaggi su
campioni di consumatori, state tranquilli e in pace con voi stessi: il 97%
delle tesi empiriche contiene dati bellamente inventati pur di ottenere una minima
significatività statistica (il restante 4% non si preoccupa invece di sistemare
gli errori, che tanto basta laurearsi). Se invece, non sapendo correlare
neppure la temperatura dell’acqua con l’angolo di rotazione del rubinetto,
avete scritto un trattato dove l’unica cifra presente sono i numeri di pagina
(li avete messi, vero?), allora la questione della discussione si fa ancora più
difficile: o sintetizzate tutto il lavoro, oppure vi focalizzate sul capitolo
più interessante dopo una breve introduzione generale. Scegliete la strategia
che preferite, tanto poi il relatore vi interromperà dopo 2 minuti, già
annoiato.
Ad ogni modo, tenetevi pronti all’eventualità che un membro della commissione vi
faccia una domanda andando a pescare argomenti collegati con la vostra tesi da associazioni assurde. A me è capitato: “Lei dice che in Germania
i bilanci dei partiti sono strutturati più come quelli di un’impresa commerciale, mentre
in Inghilterra sono semplici rendiconti di associazioni: secondo lei come mai accade questo strano fenomeno, considerando le differenze tra civil e common law?” che
per me voleva dire: “Lei dice che la penna è blu: secondo lei è perché il
castoro è rosso mentre giugno windows allegria?”.
Ora non voglio spaventarvi, e anzi continuate a ripetere il vostro bel
discorsetto per settimana prossima. Il mio consiglio però è di tenervi anche
dieci minuti in cui pensare all’ultima volta che siete entrati in università,
al vostro primo giorno, alla vostra evoluzione. Io per esempio ho
scoperto di aver percorso un cerchio: l’ultimo giorno da studente ho conosciuto
una matricola arrogante e nerd che si spacciava per esperta di letteratura e che teneva
a dirmi le sue impressioni circa un noto romanzo ottocentesco; ironia della
sorte, è stato lo stesso discorso con cui ho stretto la prima amicizia in
università. Voi invece potreste aver compiuto percorsi, secondo rette o arabeschi, passando da comunisti a
capitalisti, da poeti a frequentatori dei Magazzini (al mercoledì che è
gratis), dal “vado a vivere a Londra” a “ho trovato lavoro nel mio villaggio nel
sud del Molise” e viceversa. Forse ancora avete pensato che la linea più breve esistente sono
due punti adiacenti, per cui siete rimasti gli stessi beoti e le stesse divette
del liceo e non chiedete che un pezzo di carta e di tornare sempre a casa per
pranzo.
Auguro a nessuno di voi lettori di appartenere a quest’ultima categoria,
perché vorrebbe dire che avete vissuto questi tre o cinque anni come semplice
contesto, come scenografia di una stasi personale che poteva altrettanto
efficacemente essere ambientata in un triste ufficio, in una tabaccheria o
sopra una banchisa polare. Prego inoltre che non vi accorgiate mai, magari
mentre cominciate a sillabare le prime frasi tipo “mam-ma”, “cac-ca” o
“chi-e-de-re fe-ri-e”, di quale concentrato meraviglioso di esperienze e
opportunità sia stata l’università; perché mentre per gli altri questo è un
ricordo nostalgico e felice, per voi sarà un rimpianto frustrante.
Ma sto moralizzando su una categoria che per altro non esiste, e adesso è ora di andare. Mettete giù i pastelli a cera,
sputate il pongo, lavatevi le mani e andate a laurearvi. E che l’obbiettivo sia
per tutti lo stesso: laureatevi e vincete il superenalotto.
State affamati, state pazzi, statemi bene.
Dan Marinos