lunedì 3 settembre 2012

PD: Poveri Dentro (ovvero della mancanza di regole contabili per i partiti)



Se il Partito Democratico fosse una società per azioni, osserveremmo i suoi azionisti pendere da una trave come i salumi del reparto gastronomia; sulla scrivania nessun messaggio d’addio, soltanto il bilancio 2011 dell’associazione guidata da Bersani. E’ stata forse registrata una perdita clamorosa? No, anzi, il conto economico chiude in utile di 5 mln rispetto alla perdita di 43 mln del 2010. La causa è invece da ricercare nello stato patrimoniale, dove l’attivo è passato da 184 mln ad appena 33 mln, un crollo di più dell’80%; specularmente il patrimonio netto è sceso da 125 a 25 mln e i debiti da 61 a 6 mln. Dove diavolo sono finiti quattro quinti di partito? Sarà mica che Berlusconi – top player sul mercato dei parlamentari – ha comprato Bersani, Fassina, Renzi e D’Alema? Oppure è stata qualche casa farmaceutica a fare un takeover sui rottama tori, per poi testarli sui linfonodi di qualche roditore? No no, niente di tutto ciò! Semplicemente sono spariti tutti i crediti che il PD vantava nei confronti dello Stato per i contributi elettorali.

PD: Poveri Dentro! potrebbe titolare un quotidiano come Libero. Le cose ovviamente non stanno così e il partito, nonostante questa incredibile liposuzione, non è sul lastrico. Semplicemente il tesoriere, Antonio Misiani, ha deciso di cambiare le regole di contabilizzazione dei contributi. Ha fatto bene? Ha fatto male? Vediamo un po’ cos’è successo.

Sappiamo tutti che i rimborsi per le spese elettorali non sono calcolati sulla base di quanto effettivamente speso ma sui voti ottenuti, per cui nelle casse delle formazioni politiche entra sempre più denaro di quanto ne esca effettivamente. Per questo motivo sembra che quello fornito dallo Stato sia un vero e proprio finanziamento (che il referendum del 93 aveva abrogato). Ad ogni modo, secondo la vecchia legge 157/1999, i pagamenti per i rimborsi elettorali – che il Parlamento versa a rate annuali  –  dovevano interrompersi qualora la legislatura fosse finita in anticipo. Questa norma, che puntava a contenere i trasferimenti ai partiti, era assurda da un punto di vista concettuale: trattandosi di rimborsi, non si capisce infatti il perché dell’interruzione visto che il partito ha già subito tutte le uscite per la campagna elettorale. L’apparente nonsense può essere compreso solo se – di nuovo –  si considera il contributo come un finanziamento all’attività operativa; in questo caso il blocco dei pagamenti ha ragione d’esistere nel momento in cui cessa tale attività, ovvero la presenza delle liste in Parlamento.

Poi, nel 2006, la svolta. Con la legge n.56 è stato deciso che i pagamenti dovevano continuare anche a legislazione finita in anticipo. Questo è stato fondamentale per il PD che, non esistendo fino al 2008 , è potuto crescere soprattutto grazie ai soldi che La Margherita e i DS incassavano per la quindicesima legislatura (2006-2008). Nei bilanci queste entrate (essendo riferite alla copertura delle spese per la campagna elettorale) venivano correttamente considerate di competenza del primo anno della legislatura e in contropartita si generava un credito (free-risk) nei confronti dello Stato. A furia di elezioni politiche, regionali ed europee lo stato patrimoniale del PD si è, naturalmente e giustificatamente, gonfiato a dismisura.

Nell’estate del 2011 è però stata ripristinata la condizione imposta dalla 157/1999, e il tesoriere del PD si è trovato davanti a un bivio. Da una parte mantenere il principio di competenza, e tuttavia accettare che i crediti  soffrano il rischio “scioglimento Camere”; siccome ad ogni previsione di perdita nell’attivo si associa un fondo di copertura, si pone quindi il problema di come valutare tale rischio. Chi decide quanto sia instabile una legislatura, il partito stesso? No, non è oggettivo. Un esperto (come gli avvocati che giudicano le possibilità di sconfitta in un processo)? Non esiste. Dall’altra parte, come scelto dal PD e da altri partiti, si può cancellare tutti i crediti e passare al primitivo principio di cassa (segnare nei ricavi solo la rata incassata), con conseguente sgonfiamento del bilancio e perdita di informazioni per il lettore.

Io non ho alcuna facoltà di indicare la scelta migliore, ma certi punti fondamentali appaiono ovvi. Nessuno legge il bilancio dei partiti per farci degli investimenti, né tantomeno per trarre conclusioni politiche e decidere chi votare (sarebbe comico se si votasse a seconda della performance reddituale o della solidità finanziaria). Ciò però non significa che questi documenti siano inutili, e che possano quindi essere redatti scegliendo a piacere tra una lista di principi contabili lunga come il campionario Pantone. E’ anzi la totale assenza di regole e, in generale, una normativa ricca di ridondanze e lacune che trasforma erroneamente il bilancio un manifesto politico e che permette di dire, parafrasando i dittonghi primordiali di un noto dirigente politico, “che i partiti possono buttare i soldi dello Stato fuori dalla finestra”.

Dan Marinos

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