Prendete un biscotto. Non importa
quale: un golosissimo Pan di Stelle, un arido Oro Saiwa, un tristissimo
Taralluccio o un Bucaneve molto vintage. Pucciatelo nel latte e distraetevi
leggendo il giornale. Si spezzerà, e il disappunto sarà estremo.
Forse anche Sara Tommasi mangia
biscotti per colazione prima di cominciare un’altra estenuante giornata. Fino a
poco tempo fa la odiavo, la Tommasi; bocconiana e troia, e mi si concederà l’appellativo
di bocconiana. All’inizio soffrivo vedendo il nome della mia università
sputtanato da una poveraccia che si diletta nel denudarsi davanti ai bancomat
nella speranza che qualche fotografo protragga la sua fama testimoniando il suo
ennesimo, strategico delirio. Poi però mi sono posto qualche domanda circa la sua
presunta ignoranza e la sua assenza di scrupoli. Mi sono chiesto, per esempio,
quanto un bocconiano medio sappia di signoraggio bancario e quante persone che
conosco (me compreso) siano in grado di rispondere senza errori – e senza
macchie – alla diva tutta pelle e niente pelo. Risposta: pochissimi. Certo, il
signoraggio bancario “non è in programma”, e Dio mi è testimone di quante volte
mi sono compiaciuto di queste parole mentre eliminavo capitoli interi dai testi
d’esame. Tuttavia ho come la sensazione di poter ottenere lo stesso imbarazzante
silenzio anche di fronte agli argomenti inclusi nei syllabus.
Tranquilli, non sto sostenendo
che la maggioranza dei laureati in Bocconi siano delle capre; primo perché lo
stesso discorso vale per studenti di altre università e secondo perché ritengo
legittimo non ricordare tutto ciò che viene insegnato. Ma con questa seconda
conclusione non posso neppure dimostrare che Sara Tommasi, quella stupida
puttana, sia davvero stupida. Il prossimo passo quindi è eliminare il
significato negativo al termine “puttana”. Non c’è bisogno che vi spieghi qui la
mia opinione secondo la quale la prostituzione dovrebbe essere equiparata ad un
mestiere qualsiasi, e che uno col proprio corpo può fare quello che vuole, dal
tatuarsi all’eutanasarsi (finché ciò avviene secondo la propria coscienza). Ciò
che voglio invece analizzare è questo fatto: se Sara Tommasi ottiene benefici
nel fare quello che fa è perché è il suo multi-stakeholder approach ad imporglielo.
Di certo nel suo caso non si può parlare di individualismo, di ricerca del
profitto a scapito della responsabilità sociale; tutte le sue azioni sono fatte
considerando le richieste di consumatori, fornitori ed altri portatori
d’interesse. E’ la società civile ad implorarle di denudarsi, e questo signori
miei è certamente una cosa raccapricciante perché sarà anche vero che è nella
natura dell’essere umano desiderare la volgarità (e le tette e i muscoli
sudati), ma non è assolutamente naturale che questo desiderio prevalga su altre
prime necessità e venga richiesto fino a strapparsi i capelli. Qualcuno ritiene
di aver visto la fine della cultura nell’insurrezione popolare dopo l’oscuramentodi Mediaset negli anni ‘80. Può darsi; ciò che è certo è che di fronte all’immenso
album informatico sulla Minetti consultabile su Corriere.it o Repubblica.it, non
si può che confermare la dittatura della sottocultura.
E dunque, per quale motivo la
Tommasi dovrebbe smettere di ricordarci la sua laurea in Bocconi mentre ingoia l’ennesimo
microfono, quando tutti i suoi stakeholders sono appagati e ripagati? Semplice:
perché la Corporate Social Responsibility funziona sul lungo termine, e nessun
manager sano di mente penserebbe mai di applicare una strategia di questo tipo
per massimizzare il valore individuale e collettivo soltanto sul breve. Eppure la
strategia di Sara Tommasi e delle altre donne (e uomini) con attività
body-intensive è così, e tra qualche anno sarà troppo vecchia per soddisfare i
desideri altrui. A quel punto i casi sono tre: 1) muore giovane e ricca, 2)
muore vecchia e sconosciuta, 3) muore vecchia e felice. E’ evidente che la
migliore delle ipotesi è la terza, ma per ottenerla la Tommasi deve cambiare
completamente l’orizzonte temporale e la prospettiva della propria strategia:
da una CSR per il breve termine ad uno shareholder’s value di lungo termine.
Accademicamente clamoroso, oserei dire.
Il biscotto, nel frattempo, è già
stato pucciato. Anche quello di Buffon, di Iniesta e di Modrić. Quali saranno stati i loro pensieri
stamattina, prima delle partite che potrebbero decretare la loro eliminazione
dall’Europeo? I croati e gli spagnoli avranno comparato i benefici tra una
strategia incentrata sui loro singoli desideri (pareggiare e passare con
certezza al turno successivo) e una che invece comprende anche gli altri
portatori d’interesse (i tifosi di calcio e, più in generale, il rispetto per
l’etica sportiva). Ma a noi italiani questo non deve interessare, perché
sebbene anche noi siamo appassionati di calcio, i nostri interessi sono
inferiori e per certi versi contrastanti con quelli di spagnoli e croati; in
altre parole, se le furie rosse dovessero seguire una pecking-order theory
per decidere quali stakeholders soddisfare, noi saremmo certamente gli ultimi della lista. Mi pare che questo sia
chiaro a tutti (ma solo perché, in fondo, nessuno di noi crede davvero nel 2-2).
La nostra insoddisfazione deve focalizzarsi sempre e solo sul comportamento della
nostra nazionale; è per questo motivo che una class action dei tifosi
dell’Atalanta nei confronti di Cristiano Doni è sensata, mentre i malumori
verso un pareggio slavo-ispanico sono semplicemente ridicoli.
Concludendo, ricapitoliamo che cosa abbiamo imparato oggi: 1) se gli
stakeholders hanno interesse solo sul breve termine, allora conviene seguire
una strategia volta a massimizzare l’interesse individuale sul lungo periodo;
2) bisogna fare ordine tra gli stakeholders, distinguendo i portatori d’interesse
diretti (esempio: gli spagnoli per la nazionale spagnola in quanto spagnoli,) da
quelli indiretti (gli italiani per la nazionale spagnola in quanto tifosi di
calcio). Le richieste dei primi sono importanti e vanno salvaguardate, quelle
dei secondi sono soltanto fastidiosi biscotti sul fondo della tazza.
Dan Marinos